Sempre più spesso “oggetto della consulenza” è divenuta la solitudine e il senso di isolamento.
Alla fine, “gratta gratta”, non è che prima non emergesse questo stesso come l’esperienza psichica di fondo magari sepolta da intoppi e vicissitudini che prendevano il nome di “disagio”, ma a distanza di quasi un anno il fenomeno si fa sempre più evidente.
Sul piano etico inizio a sentire la responsabilità di come rispondere alla richiesta di definizione di questa esperienza. Adulti e giovani, ma sempre più spesso giovanissimi, afflitti da una profonda fatica a trovare il senso delle giornate così distanziati gli uni dagli altri e privati del contatto con l’altro.
Non raramente mi trovo nella condizione di rispondere alla richiesta di consulenza per poi accorgermi di non avere certamente una definizione da restituire, quanto piuttosto uno “stare con l’altro”, insieme all’altro.
È un tempo e uno spazio che faccio discreta fatica a monetizzare, poiché vorrei non doverlo fare. Lo faccio con scrupolo di rimandare il senso della condivisione e soprattutto del non “patologizzare” emozioni che patologiche non sono.
La malattia la inventa l’uomo quando chiude la porta all’umano sentire e usa categorie per imbavagliare il fluire interiore.
E non è facile scorrere in un contesto dove non vi sono più argini ma dighe artificiali costruite dalle perversioni culturali, soprattutto per i giovanissimi.
Cosa ne sarà dei nostri giovani