23 maggio, 23 anni fa. La mafia è merda

 

Prima storia.

Sono le 17.56 di quel maledetto sabato. La Fiat Croma bianca che da Punta Raisi percorre l’autostrada in direzione Palermo è al centro della fila. Un’altra blindata davanti e una dietra ne proteggono il raggio di corsa. Il sismografo sul monte Cammarata fa segnare “oscillazioni” sulla Sicilia occidentale. È allarme, sta per partire il monito della protezione civile. Ma quel giorno non sarà la terra siciliana a tremare, ma l’intero suolo italico. Quel giorno sarà minata la coscienza e l’orgoglio di tutto un popolo, di tutta una nazione. Da quel giorno un intero Stato conoscerà l’omertà, la paura, la sottomissione. Da quel giorno l’Italia non sarà più la stessa. Pochi attimi, e poi più niente. Un tuono, poi un altro, rompono il silenzio di quel sabato 23 maggio 1992. L’autostrada, allo svincolo per Capaci, si apre e sventra le prime due auto, una Croma marrone e la Croma bianca. La prima viene sbalzata a dieci metri in un oliveto, la seconda rallenta ma non riesce a evitare il ribaltamento. Alle 19.05 arriva la notizia che nessuno avrebbe mai voluto sentire: Giovanni Falcone è morto. Con lui, qualche ora più tardi, se ne andrà Francesca Morvillo, la moglie, compagna nella vita e in quel tragico schianto di quel dannato sabato. Il giorno dopo quella che è universalmente conosciuta come la strage di Capaci la scientifica scala le colline che costeggiano l’autostrada teatro dell’eccidio. Ci trovano mozziconi di Merit, Mse e Muratti. Lì erano appostati Antonio Gioè e Giovanni Battaglia. E lì c’era Giovanni Brusca con un radiocomando collegato a una trasmittente piazzata su 500 chilogrammi di tritolo e di nitrato di ammonio miscelato con un combustibile liquido. Quella sera, a Roma, saltano tutte le trattative per l’elezione del Presidente della Repubblica.

Quel sabato 23 maggio di 23 anni fa era iniziato come un sabato qualunque. Il primo sole, i ragazzi sulle scalinate delle piazzette, gli ombrelloni e i pedalò a Mondello. La mafia è merda.

 

Seconda storia.

Il 25 maggio 1992, mentre a Roma si decide che il prossimo capo dello Stato sarà Oscar Luigi Scalfaro, a Palermo, nella basilica di San Domenico, si svolgono i funerali delle vittime della strage di Capaci. La folla accorre a salutare per l’ultima volta Falcone, la Rai racconta tutto in diretta. Viene il momento della commemorazione delle vittime e si fa avanti Rosaria Costa. Rosaria è la giovane moglie dell’agente Vito Schifani, membro della scorta del giudice e dell’equipaggio di quella maledetta Croma marrone in quel maledetto sabato. Rosaria piange, mentre le avvicinano il microfono. Il suo non è un monito, ma una preghiera:

«Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani – Vito mio… – battezzata nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato – lo Stato… – chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio… di cambiare… – loro non cambiano… – se avete il coraggio… di cambiare, di cambiare, loro non vogliono cambiare, loro… di cambiare radicalmente i vostri progetti, progetti mortali che avete.

Tornate a essere cristiani. Per questo preghiamo nel nome del Signore che ha detto sulla croce: “Padre perdona loro perché loro non lo sanno quello che fanno”. Pertanto vi chiediamo per la nostra città di Palermo che avete reso questa città sangue, città di sangue…
Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue – troppo sangue – di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l’amore per tutti. Non c’è amore, non ce n’è amore, non c’è amore per niente».

Il discorso di Rosaria è una coltellata al cuore. Al cuore di milioni di italiani. La voce rotta, le parole spezzate, la commozione. «Io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare, ma loro non cambiano…».

Rosaria e Vito erano sposati da poco. Lui 27 anni, lei 22. Un bambino di 4 mesi. Facevano le gite fuori porta la domenica ed erano innamorati di Palermo. Quando nella camera ardente a Palazzo di Giustizia a Palermo il presidente del Senato Giovanni Spadolini si avvicinò a Rosaria, lei gli disse: «Presidente, io voglio sentire una parola sola: lo vendicheremo. Se non puoi dirmela, presidente, non voglio sentire nulla, neanche una parola». La mafia è merda.

 

Terza storia.

Nello storico di un paese sono impressi nomi e numeri. Alcuni più di altri. Alcuni sono nomi di eroi, di pensatori, di artisti, numeri di date celebrative, feste, ricorrenze. Poi ci sono i nomi e i numeri delle vittime, uomini di Stato, che non si è mai saputo bene come definire, forse tanto è il rispetto. Strano eh? Persone disprezzate in vita e rispettate in morte. Ne do alcuni: Peppino Impastato (Cinisi, 5 gennaio 1948 – Cinisi, 9 maggio 1978) era un giornalista e poeta a cui stava maledettamente sulle balle la mafia e la combatteva in ogni suo articolo. Pio La Torre (Palermo, 24 dicembre 1927 – Palermo, 30 aprile 1982) è stato un politico del vecchio PCI. È grazie a lui che abbiamo il reato di associazione mafiosa e il sequestro dei beni ai mafiosi. Carlo Dalla Chiesa (Saluzzo, 27 dicembre 1920 – Palermo, 3 settembre 1982) era un generale e fondatore del nucleo speciale antiterrorismo. Sulla sua lapide c’è scritto: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”. Filadelfio Àparo (Lentini, 15 settembre 1935 – Palermo, 11 gennaio 1979) era il vicebrigadiere della squadra mobile di Palermo. Era considerato un segugio. È stato ucciso a 44 anni. Rocco Chinnici (Misilmeri, 19 gennaio 1925 – Palermo, 29 luglio 1983) è stato il primo a creare il pool antimafia. Boris Giuliano (Piazza Armerina, 22 ottobre 1930 – Palermo, 21 luglio 1979) era un ufficiale e investigatore della Polizia, capo della squadra mobile di Palermo. È stato ucciso da Leoluca Bagarella con sette colpi di pistola alla schiena. Rosario Di Salvo (Bari, 16 agosto 1946 – Palermo, 30 aprile 1982) era un politico del PCI da sempre in prima linea nella lotta alla mafia. Mario Francese (Siracusa, 6 febbraio 1925 – Palermo, 26 gennaio 1979) era un giornalista. Lavorava per il giornale di Sicilia e fu il primo a capire le intenzioni di Totò Riina. Emanuela Loi (Sestu, 9 ottobre 1967 – Palermo, 19 luglio 1992) era un’agente di Polizia. La prima poliziotta donna a dare la vita per la legalità. Questi sono nomi e cognomi di alcune tra le innumerevoli vittime di quel vomitevole fenomeno umano che si chiama mafia. Ad alcuni diranno qualcosa, per altri risulteranno nuovi. Ma la cosa che ancora fa senso è vedere che questi sono nomi e cognomi come io ho un nome e un cognome e come voi avete un nome e un cognome. La cosa che fa male è sapere che queste erano persone come io sono una persona. Come voi siete persone. Ma la cosa che ci fa alzare la testa, invece, la cosa che ci deve far lottare ogni giorno è sapere che questi nomi e cognomi, queste persone, hanno combattuto la mafia. Hanno combattuto la mafia come io posso combattere la mafia. Come voi potete combattere la mafia. E allora smettiamola di stare zitti, di sguazzare nell’omertà, nell’indifferenza. L’indifferenza è la benzina della mafia e noi non possiamo permetterci di fargli il pieno. Siamo tutti sotto scacco, e solo insieme possiamo riuscire a ribaltare la partita. Perché come diceva Falcone “la mafia è un fenomeno umano, e come ogni fenomeno umano ha avuto un inizio e avrà una fine”.

Già, Falcone. 23 è il numero che torna. Quando è stato ucciso, infatti, quel maledetto sabato 23 maggio di 23 anni fa, io avevo 23 giorni.

La mafia è merda.

 

 

Così, Santità, ora i vostri sacerdoti sono morti, e io sono rimasto vivo. Ma in verità sono io che sono morto, e loro che vivono, poiché come potete insegnarmi, Santità, lo spirito dei morti sopravvive nella memoria dei vivi.

(da Mission, Roland Joffè, 1986)

 

 

 

Riccardo Soro

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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