Il gioco delle tre sedie

Se c’è qualcosa che Joseph Kosuth mi ha insegnato, tale cosa è il nulla.Fondamentalmente Kosuth non mi ha mai insegnato niente, e mai ha avuto l’intenzione di farlo. Penso che nemmeno mi conosca in vero.

Nel momento in cui qualcuno ti insegna qualcosa, appunto, si suppone esista un livello di conoscenze precedenti all’atto e un livello posteriore in cui le suddette conoscenze siano in quantità maggiore. Con Joseph, i miei due livelli conoscitivi sono perfettamente alla pari.

Bisogna dargli atto però di avere altamente incrementato il mio livello di coscienza sulla semantica artistica generale: egli è riuscito a dare una definizione tecnica del collegamento tra idea, svolgimento e prodotto finale della creazione.

Prendiamo un grande classico della musica internazionale, Yellow Submarine dei Beetles.
Non esiste band che non l’abbia coverata e, salvo rari casi, il risultato reinterpretativo è sempre stato molto fedele all’originale. Non molti però sono riusciti poi in seguito a scrivere dei pezzi dello stesso spessore.

Il prodotto finale, nell’arte come nella realtà (vedi One and three chairs), ha un importanza relativa al processo creativo. Lui lo sa. Essa è solo un pezzo di legno con quattro gambe (meraviglioso peraltro il richiamo spontaneo e assolutamente non cercato al cavallo di Troia) che chiunque di noi, dopo un po’ di praticantato carpentieristico, può riuscire a produrre.
Il genio arriva con Platone. Lo spettacolo comunicativo si palesa nel momento in cui riuscite a definire il termine “sedia” e ricollegarlo istantaneamente a quel blocco di legno lavorato che altrimenti non avrebbe alcun senso.

Non vuole essere una lezione d’arte perché, come Kosuth (e verosimilmente ancora meno), non ho un granché da insegnare, bensì è uno schiaffo veloce per farvi ricollegare la triade, spesso sottintesa, tra idea-immagine-oggetto.
Cosa che Kosuth (quanta cacofonia) riesce a fare stupendamente.

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