L’Anti-Social Network

 

Se quando ero piccolo dicevo ‘diario’, mia mamma apriva un cassetto e tirava fuori, tutta impolverata, una vecchia agenda semi-pasticciata e con un lucchetto, e mi raccontava gongolante di quando faceva vela a scuola per andare alla fiera di Cagliari. Era il primo posto dove si sfogava, dove si confidava, dove si metteva a piangere. Era il suo diario.

Se un ragazzino dice ‘diario’ oggi, nel 2014, la prima cosa che viene da pensare è al diario di Facebook. Che è tutta un’altra cosa. Innanzitutto è un diario pubblico. E già questo è strano. Diario pubblico. Un ossimoro. Un po’ come il ‘ghiaccio bollente’ di Tony Dallara. E poi ha cambiato totalmente funzione. Non serve più a scriverci sù i segreti, le confidenze, le cotte per la ragazza della 4a B. Serve a scriverci la prima cosa che ti viene in mente, che quindi è alla visione di tutti. Ma, un attimo solo, qualche riga fa, quando vi parlavo del diario col lucchetto, facevo riferimento a meno di vent’anni fa. E’ possibile che in meno di vent’anni i diari abbiano cambiato così radicalmente il loro imprinting?

Beh, la risposta è sì. Se non altro perché il ‘caro diario’ di tanto tempo fa non esiste più. Ora ne esiste un altro, di diario. Che non è una vecchia agendina da mille lire, non è un rilegato di fogli un po’ ingialliti. Non è niente di fisico. E’ un diario virtuale. Il diario oggi è ciò di quanto più privato ci possa essere con l’unica differenza che lo possono vedere tutti. Altro che lucchetto. Vabbè, bando alle ciance. Fai nomi e cognomi, direte voi. Sto ovviamente parlando del social-network più famoso nel mondo, Facebook, che da quando è sulla rete ha stravolto le vite di tutti. Ed è inutile che scuoti la testa, ha stravolto pure la tua. Facebook è stato in grado di introdurre il concetto di diario pubblico, ossia una pagina dove postare (nuovo neologismo nato con il world wide web) qualsiasi contenuto multimediale (foto, video, testi) da poter condividere con tutti. Così, una foto postata ad Austin poteva essere vista tre secondi dopo a Perth, come uno stato scritto a Roma poteva tranquillamente essere visualizzato da un perfetto sconosciuto in quel di Hong Kong, se solo il perfetto sconosciuto avesse conosciuto l’abc dell’italiano. Sì, perché la rete è una linea velocissima che viaggia senza mezzo di trasporto. Che bello il mondo in un click, direte voi. Sì, ma siamo sicuri che tutti vogliano il mondo in un click? La verità è che i social-network sono uno strumento potentissimo nelle mani di persone potenzialmente sbagliate. Ma tutto ciò ha un’accezione puramente statistica, dal momento che la maggior parte della popolazione mondiale ha a casa un dispositivo e una connessione. E vuoi che all’interno della maggior parte della popolazione che si collega ad Internet non ci sia almeno uno-scemo-uno (se non tanti-scemi-tanti) che usa la sua bacheca di Facebook riempendola di selfies (che? Oh, gli autoscatti!) e di stati intimidatori? (ma una chiamatina all’interessato no?). Ma va là, vivi e lascia vivere. Già. E’ solo che prima funzionava diversamente. Prima funzionava che per avere uno strumento potente in mano (che ne so io, la televisione) dovevi fare la gavetta perché non c’era YouTube che ti permetteva di far sentire i tuoi singoli a un pubblico. Per carità, non me ne vogliano Mika e Fedez. Però se mi devo trovare sullo schermo un Rosario Muniz o un Bello FiGo Gu ditemelo, che vado giù in cantina a prendere l’ascia per distruggere lo schermo del pc.

Sono un nostalgico, lo so. E per dirlo sono bastati meno di 140 caratteri, come vogliono i capi di Twitter. Certo, 140 caratteri bastano per scrivere “torno subito, “ci vediamo dopo”, persino per scrivere “ti amo”. Ma non è meglio dirlo, ti amo? Limiti ortografici che nella lingua di Dante suonano un po’ come un assassinio. Piccolezze che ci fanno perdere la capacità fisica di parlare. Scriviamo sempre così tanto su una tastiera, ma non parliamo mai. E allora viene da pensare che la tecnologia avanza in misura uguale a quanto l’uomo che regredisce.

Prendiamo pure Instagram. D’un tratto tutti fotografi. Ma siamo sicuri che la fotografia sia per tutti? No, non lo è. Per una questione tecnica. La fotografia è un preciso linguaggio comunicativo, al pari del cinema, del testo scritto. Il fotografo, attraverso la sua foto, adempie a un’esigenza comunicativa e sa perfettamente, al momento dello scatto, quello che vedrà mezzo secondo dopo sul display della sua macchina fotografica. Non mi sono spiegato. Pensiamo alla parola ‘cane’, che in questo caso è un significante. Tutti noi abbiamo in testa un cane. Ebbene, sapete una cosa? Il cane che ho in testa io non è lo stesso che avete in testa voi. La fotografia è simile. Della fotografia si possono fare mille interpretazioni, ma per permettere un interpretazione della fotografia bisogna dare un input comunicativo, requisito che di certo non appartiene a tutti gli utenti di Instagram.

E poi questi seguaci, questi followers, questi fans. Un continuo mitizzare, idolatrare. Un circolo vizioso che permette a qualcuno di elevarsi a vip del quartierino senza nessun titolo e a qualcun altro di sentirsi un eterno inadeguato, magari essendo più adeguato di tanti. Come dite? Che non ci posso fare niente? Che il mondo è questo e non sarò certo io a cambiarlo? Vero. Il mondo non lo posso certo cambiare io. Il mondo lo possiamo cambiare noi, tutti. Il punto è che mentre lo stesso mondo cambia, noi siamo lì, sguardo basso sullo smartphone, a mettere “Mi piace” sull’ultimo selfie del nostro amico o a contare i caratteri sul post di Twitter, per non rischiare di sforare. Ed è proprio lì che mi viene un grosso nodo alla gola, accompagnato da una tristezza interiore. Perché se è vero che abbiamo il mondo in mano, non stiamo facendo niente per prendercelo. E non fatevi fregare dal fatto che si chiami social-network, perché non c’è niente di social nello scrivere tutti soli, su una tastiera, in una cameretta.

E allora, se proprio non avete voglia di migliorare il mondo, ridatemi il mio vecchio diario.

 

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