FaccediCa: Luigi Amat, l’avvocato che scrive storie

di Nicola “Tixi” Montisci

Come promesso, ecco la rubrica Facce di Ca, storie di cagliaritani che fanno cose, persone conosciute, note oppure, come dice una nota emittente radiofonica, very normal people, però persone sconosciute ma con buone storie da raccontare.

Le domande saranno sempre più o meno le stesse, con facoltà di avere risposte lente o lunghe, per cui preparatevi a ritratti qualche volta inusuali di persone che conoscete o di cui avete sentito parlare, perchè andremo a scavare un po’ di più sulla loro vita e i loro pensieri.

Cominciamo da Luigi Amat, professione avvocato, con la passione per la scrittura e un libro, Matatunno, all’attivo. No, non parleremo stavolta del suo libro, anche se ci sarà occasione sicuramente! Parleremo di Luigi, della sua vita e soprattutto, visto come ci chiamiamo, del suo rapporto e della sua percezione con Cagliari.

Luigi, ci piacciono le presentazioni legate al concetto del fare: chi sei lo sappiamo, ora in 30 secondi rispondi alla domanda “ma che fai nella vita?”

Nella vita, come tanti, cerco di districarmi tra il contingente e l’inevitabile, cercando di godermi il più possibile il generoso presente. Qualunque cosa accada, mi sforzo di preservare preziosi momenti di solitudine, riflessione e preghiera. Di lavoro faccio l’avvocato, mi affascina in particolare la parte di fantasia che la professione inevitabilmente conserva, baluardo della vita che facevo prima di diventare adulto. Una volta mi è capitato di scrivere una storia (Matatunno, ndr). Non so con quali risultati, ma certamente tra le conseguenze c’è stata quella d’essere braccato da te e, probabilmente, è il vero spunto della richiesta di questa intervista. Per cos’altro, altrimenti?

Ok, restiamo sul tema. Qual è il libro che hai regalato di più e perché?

Non saprei dirlo con certezza. Amo leggere e quando devo fare un pensiero a qualche amico che so condividere la stessa passione, un libro è un porto sicuro. Dipende un po’ dai momenti storici, dai gusti che penso possa avere il destinatario, ma non può che essere un libro che ho già letto. Nicolò Ammaniti, Ti prendo e ti porto via; Philip Roth, Pastorale Americana e La macchia umana; Elif Şafak, La bastarda di Istanbul o La casa dei quattro venti; Elisabeth Strout, Amy e Isabelle; La versione di Barney di Mordecai Richler (ma questo con prudenza, molto dipende dal destinatario); Patria di Fernando Aramburu; Il maestro e Margherita di Bulgakov; poi La sonata a Kreutzer, Risurrezione e La morte di Ivan Il’ic. Mi vengono in mente questi tra i più regalati.

Come inizi la tua giornata? Hai una routine mattutina?

Mi sveglio con meno fatica di un tempo, quando mai poteva capitarmi di farlo in anticipo rispetto a un terribile trillo meccanico nelle orecchie. Apro gli occhi, entro mentalmente in me stesso. Sorrido per la nuova pagina che mi è stato concesso di scrivere, o forse più probabilmente di leggere, ringrazio e mi attivo. Negli ultimi dieci anni non posso dire di avere avuto una routine: tutto muta in continuazione, soprattutto in base agli impegni lavorativi, sempre molto vari, alle esigenze costantemente diverse dei figli in crescita, alla temperatura dell’acqua del mare.

C’è una frase o un’idea che ripeti spesso nella tua vita?

Più che frasi o idee, di ricorrente ci sono molte domande. Tra queste, mi chiedo spesso se sto riuscendo a essere me stesso, come mi sto comportando quando non sono osservato, se sto facendo abbastanza per gli altri. Per rimanere al quesito, devo dire che non amo le massime, ma molto Seneca, che potrei citare all’infinito.

Qual è stata una delle decisioni o cambiamenti più importanti che hai fatto?

Mi viene in mente un giorno dell’adolescenza in cui desiderai che la mia timidezza si trasformasse in modo da non essere più freno. Fu una decisione e, al tempo stesso, fui sorpreso di come la volontà potesse incidere anche sulle nostre caratteristiche personali. L’atavica timidezza esiste tuttora, non venne certo spazzata via, ma in quella occasione assunsi contezza di avere, tra i miei difetti, anche qualche qualità, e questa introspezione contribuì a formare una personalità che io stesso ignoravo.

Se potessi avere un enorme cartellone ovunque a Cagliari, cosa ci scriveresti?

“Voi siete qui”.

Come hai imparato a dire NO alle opportunità e alle richieste?

In realtà spero di non imparare mai a dire “no” alle opportunità. Bisognerebbe invece sforzarsi di dire “sì” quando ci si presentano, accorgersene, vederle, sfruttarle. A respingere le richieste, invece, sto migliorando, anche se proprio questo momento dimostra che ho ancora da imparare.

Ci sono delle abitudini o pratiche che hai adottato per migliorare la tua vita?

Al di là dell’impegno a ritagliarmi momenti di solitudine, ho imparato che credere di poter avere qualcosa sotto controllo è una mera utopia che probabilmente abbiamo per istinto di sopravvivenza e che per questo, qualche volta nella vita, non bisogna essere troppo calcolatori.

Se dovessi consigliare qualcosa a un giovane cagliaritano o a una persona che sta iniziando una sua passione, quale sarebbe?

Cagliaritano o meno che sia, penso che un giovane che stesse iniziando a coltivare una sua passione non avrebbe bisogno di un mio consiglio, ma di sicuro incontrerebbe un mio sguardo di ammirazione.

Quando ti senti sopraffatto o hai perso la tua concentrazione, cosa fai per tornare “sui binari”?

Mi fermo. Penso agli esempi che ho avuto in famiglia. So che non tutti hanno avuto la mia fortuna in questo senso, ma a me basta pensare a quelli. Respiro e riparto.

Ci sono delle cattive raccomandazioni che ti han fatto?

Penso di avere avuto qualche protezione dal cielo, per quanto riguarda le amicizie. Sono sempre riuscito a divertirmi senza ricorrere ad altro che alla compagnia. Fortunatamente non sono avido. Se ho avuto qualche cattiva raccomandazione o non me ne sono accorto oppure ho voltato lo sguardo altrove, dove mi trovavo bene.

Come descriveresti Cagliari a qualcuno che non l’ha mai visitata?

Qual è il tuo luogo preferito in città e perché?

Posso dare un’unica risposta a queste due domande. Castello e il Poetto, per distacco. Cagliari è una città la cui bellezza è fatta di luci, colori, strisce di cielo disegnate dai palazzi sopra la testa, sabbia e acqua salata, vicoli e bastioni, volti di anziani e grida di bambini, vento e iodio, sottani e stemmi, lidi e leggende, cupole e intraducibili espressioni d’accoglienza, cicatrici di bombe e cattiva amministrazione. Più che i monumenti, a descriverla sono gli attimi. Per questo nessuna cartolina può raccontarla.

C’è un evento o una festa a Cagliari che aspetti con ansia ogni anno?

Da quando i Dauri non esistono più, no.

Scherzi a parte, Cagliari ha i suoi eventi e i suoi riti, anche profondi, suggestivi, storici. Personalmente non aspetto con ansia nessuno di questi, il che non significa che nutra alcuna avversità. Forse con ansia, ma certamente non nel senso di trepidazione, attendevo Sa die de sa Sardigna quando abitavo in Castello. Non mi faceva piacere essere svegliato da fucilate celebrative di un evento che non condividevo ma che anzi consideravo celebrare un’umiliazione per il popolo sardo, e con trepidazione aspettavo invece che passasse.

Come credi che Cagliari sia cambiata negli ultimi 10 anni?

Purtroppo, complessivamente, in peggio. Noto sempre maggiore distacco tra amministrazione e popolazione, in linea con quanto riscontro avvenire nella capitale e nell’intero panorama nazionale. Buone iniziative bloccate nell’insopportabile ingorgo generato dal gioco di rimbalzo di responsabilità tra schieramenti politici; iniziative scellerate; cattiva gestione delle situazioni emergenziali. Quartieri letteralmente abbandonati, se non addirittura peggiorati. Scuole al collasso, anche strutturale. Turismo in entrata quasi esclusivamente alimentare.

Ho apprezzato il notevole miglioramento del funzionamento delle linea autobus, sotto ogni aspetto, a partire dall’efficienza del servizio.

Sono ottimista di natura e noto accendersi spiragli di qualità qua e là, anche se quasi mai nelle stanze da cui ce li si dovrebbe attendere.

Qual è la cosa che ti piace di più della mentalità e della cultura di Cagliari?

Ho difficoltà a scindere la mentalità del cagliaritano da quella del sardo in generale. O meglio, della mentalità del primo apprezzo incondizionatamente quella parte che è immancabile nel secondo: la dignità, la generosità, la compostezza, la riservatezza, la genuinità. Queste qualità, presenti anche nel cagliaritano, subiscono le influenze, sia positive che negative, dovute alla maggiore esposizione di chi è per ragioni geografiche sulla porta rivolta al resto del mondo. Molte doti insite vengono raffinate dalle esperienze, altre da esse frustrate al punto di trasformarle in presunzione, altre volte in vittimismo. Per questo fluttuo continuamente tra le emozioni dell’empatia e dell’identificazione (raccolta della plastica o delle sigarette abbandonate da incivili sulle spiagge) e la delusione della pochezza culturale (cori di chi crede di poter gridare chi un altro debba tifare, magari dopo aver partecipato il giorno prima al Gay Pride, o chi sbandiera che il Cagliari sarebbe la squadra di una terra dopo avere per anni urlato a squarcia gola contro chi quella terra la abita da sempre). Non resta che sorridere e sperare che leggiamo tutti un po’ di più.

Ci sono degli usi e tradizioni locali che ritieni siano unici di Cagliari e che vorresti condividere?

Come il napoletano, il palermitano, il genovese, il romano e via dicendo, anche il cagliaritano ha caratteristiche inconfondibili che lo farebbero riconoscere ovunque. Anche su questo punto è il modo di essere di per se stesso a colpirmi di più e a spingermi desiderare che venga condiviso col resto del mondo, con l’apertura mentale di chi sa accogliere ogni diversità. Per questo non voglio pensare a usi o tradizioni folkroristiche particolari, quanto a quella riservatezza e quella dignità che hanno conquistato Luigi Riva e, anche se in quel caso di cagliaritani non si trattava, Fabrizio De Andrè.

Cosa ti fa sentire a casa quando sei a Cagliari?

In senso lato, nulla mi fa sentire più a casa di quando, seppure all’estero, riconosco un altro sardo dai soli lineamenti, dalla profondità dello sguardo e dai solchi sulla pelle del viso.

In senso fisico, invece, nulla mi faceva sentire di nuovo a casa come, negli anni 80 e 90, passare dall’aereo al bus arancione e senza sedute che, all’aeroporto di Elmas, ti conduceva agli arrivi.

Se potessi cambiare una cosa della città, quale sarebbe?

Ce ne sono diverse. L’ingresso in città. I servizi ai cittadini e ai turisti. La mobilità. Ma se da domanda devo scegliere una cosa: la mentalità, ancora troppo legata all’invidia, a antichi complessi d’inferiorità e al proprio orticello.

Come reagiscono le persone quando dici loro che vieni da Cagliari? C’è una percezione o uno stereotipo comune?

Solitamente, se ho già parlato, è una precisazione di cui non c’è necessità. Personalmente ho sempre percepito curiosità, empatia, simpatia verso il sardo. L’unico stereotipo del cagliaritano credo lo abbia soltanto il cagliaritano stesso, come fosse attratto dalla caricatura di sé con la pizzetta sfoglia in una mano e il colletto della polo sollevato.

Un posto sconosciuto che consiglieresti?

Non so se l’accesso sia consentito. Se lo fosse, un posto poco noto che suggerirei è il molo di fronte alla via Roma, che porta al Molo di Ponente. Ci si arrivava da via San Paolo e poi da via dei Calafati. Bisognava forse violare qualche prescrizione perché era zona di cantieri navali, ma poi, se l’orario era quello giusto, quello del tramonto o, meglio ancora, quello del crepuscolo, si godeva il profilo della nostra città spegnersi lentamente offrendo il massimo splendore.

Il tuo locale preferito?

D’estate, il Charanga. D’inverno il Soul e il Garage. Mi rendo conto di essere un disastro per questa rubrica!

Un ricordo d’infanzia?

Ne avrei a grappoli, tra cui la città coperta dalla neve. Ne scelgo un altro.

Ho tre, forse quattro anni. Sono con mia madre a fare una passeggiata. La precedo correndo per brevi tratti di strada e sedendomi sui gradini degli ingressi dei palazzi ad aspettarla, con suo malcelato disappunto per il colore che vanno via via prendendo i miei pantaloni corti. Entriamo da Cocco, la storica libreria di via Manno, un paradiso per mia mamma, che non finisce più di sfogliare tomi e confrontarsi col libraio. I minuti di un bambino in quella situazione corrispondo a mezze ore. Mi struscio per terra tra gli scaffali e faccio ogni gioco d’immaginazione possibile coi personaggi ritratti nelle copertine, ma poi la stanchezza diventa noia insopportabile. Me ne vado senza dire niente, perché altrimenti sarei stato fregato. Dopo un tempo indefinito mia madre si accorge che non sono più impegnato a pulire il pavimento coi miei vestiti o a far smorfie a personaggi immaginari. Uno stato di panico che solo oggi posso immaginare la pervade tra la nuca e l’osso sacro. Esce in strada, non mi vede. Passa una macchina della polizia, chiede aiuto agli agenti che la invitano a descrivergli il bambino. “Piccolo e sporco” sono le uniche parole che riesce a pronunciare in quello stato emotivo. Le ricerche proseguono nei paraggi. Piazza Costituzione, via Torino, piazzetta Savoia. Di me nessuna traccia. Solo bambini puliti e regolarmente in compagnia di qualche adulto. Mia madre rincasa disperata e senza sapere bene che fare, deve telefonare a mio padre e avvisarlo. Abitavamo di fronte alla Cattedrale. Mi trova seduto davanti alla soglia di casa. Avevo trovato il portone socchiuso ed ero salito fin lì. Nonostante sia di nuovo seduto per terra e immagini possa rifilarmi un ceffone, mi ritrovo stretto in un abbraccio forte, con la sensazione che stia trattenendo le lacrime. Io, che ancora facevo i numeri “allo specchio” e confondevo gli avverbi di tempo, districando la bocca dalla sua spalla dico: “Te lo dicevo domani che sapevo la strada!”

Un piatto che tutti dovrebbero assolutamente provare?

Non sono il tipo da anguille e lumache, né un appassionato di cucina. Suggerirei un risotto alla pescatora nel posto giusto o un maialetto da qualche allevatore, non da agriturismo.

La tua giornata ideale trascorsa a Cagliari, dalla mattina alla sera?

In fondo basterebbe spostare la virgola indietro – posizionandola dopo “ideale” – e togliere il punto di domanda.

Come pensi che la generazione più giovane percepisca Cagliari rispetto alle generazioni più anziane?

Non riesco a farmi un’idea su questo. Oramai mi sembra tutto stravolto e fatico a immedesimarmi nelle generazioni più giovani. E’ cambiata la socialità, sono mutati i rapporti tra le persone, l’incontrarsi fisicamente nelle piazze, il modo di frequentarsi. Non vedo tanti giovani in giro per la strada. Si spostano con mezzi privati, i genitori li accompagnano ovunque con l’idea di proteggerli, si vedono dove hanno appuntamento, vengono ricondotti dall’auto alle mura domestiche, si intrattengono davvero solo allora, digitando sugli schermi dei loro telefoni. Ho come l’impressione che ci sia un divario incolmabile tra come gli anziani e i giovani di oggi percepiscano la città e, più in generale, la realtà. E ho il sospetto che la percezione dei secondi sia condizionata da quello che gli si vuole rappresentare sul palcoscenico della rete, la piazza virtuale.

C’è una storia o un aneddoto su Cagliari che ti piace raccontare e che ti riguarda? (Se curiosa, anche meglio!)

Un piccolo aneddoto su un cagliaritano. Che sono io. Che pensavo d’essere intervistato nella qualità accidentalmente rivestita di scrittore (“Un piccolo caso editoriale” scrisse L’Unione Sarda il 30.10.2021 a firma di Luca Mirarchi) e invece venivo contattato in qualità di cagliaritano. Secolare, per carità. Ma senza nessun merito, una qualità ereditata. Veramente un piccione.

Grazie Luigi!

Condividi:

Facebook
Twitter
Pinterest
LinkedIn
WhatsApp

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

On Key

Articoli correlati

×

Hello!

Click one of our contacts below to chat on WhatsApp

× Possiamo aiutarti?